Il corpo delle donne
L’immagine del corpo delle donne nei media
(a cura di Francesca Sandri, psicologa)
L’utilizzo del corpo della donna, che viene fatto nelle comunicazioni e spettacolarizzazioni mediatiche, rimanda ad una questione attuale e di forte impatto sulla quotidiana costruzione di una rappresentazione culturale del femminile, che non riguarda solo la sfera intima identitaria delle donne, ma che coinvolge anche l’universo mentale maschile.
Tutta la popolazione a livello mondiale (anche se qui ci soffermiamo sulla realtà italiana) viene continuamente stimolata dall’immagine.
Nell’epoca postmoderna l’immagine si fa interlocutrice principale, non solo per tradurre elementi estetici, quindi per il puro e semplice “piacere” degli occhi, ma anche per veicolare informazioni, in-formare valori, proporli a grandi masse, che li adottino come codici o modelli; e questi modelli vengono trasmessi in uno scenario di spettacolarizzazione, in cui sono immessi anche i corpi delle donne, usati esclusivamente per generare un modello attraente e vendibile, per gli uomini, sì, ma anche per le donne…
Una riflessione, che emerge dalla visione del documentario della Zanardo e dei suoi collaboratori, si basa sul sospetto che in TV, in Italia, vengano veicolati messaggi d’impatto e forza, tali da offrire alle masse una possibilità di adesione, veri e propri vocabolari condivisi che, in forma light, ma davvero poco subliminale, propongono canoni di modernità, soluzioni per stare al mondo e risultare adeguati, vincenti, sexy, indenni ai fisiologici mutamenti che l’età e il tempo comporterebbero per naturali effetti (probabilmente molto indesiderati).
Qual è il senso di proporre una selezione di immagini televisive che condividono tutte, o pressoché tutte, l’utilizzo manipolatorio del corpo delle donne?
Perché, a quale scopo i segni del tempo che passa e spariscono dalla loro naturale collocazione sui visi e nei corpi delle donne?
Questa giostra mediatica si baserebbe su un preciso sistema che risponde più a leggi di mercato che non a canoni estetici, più o meno condivisibili, su cui si basa la realizzazione degli spettacoli d’intrattenimento.
Nella programmazione in tv è infatti avvenuta una totalizzante cancellazione dei volti adulti, sostenuta dal ricorso alla chirurgia estetica per rimuovere qualsiasi segno di passaggio del tempo; sembra che il prezzo da pagare per la visibilità, per poter essere guardate dall’altro, si concretizzi proprio in una rimozione a carico della faccia e del corpo, di quegli aspetti espressivo-comunicativi che testimoniano l’identità realistica della donna.
Una prima questione, che aiuta a farci strada nella comprensione delle scelte mass-mediatiche e nelle ripercussioni culturali che queste comportano, può essere affrontata su un terreno psico-sociale che ci fa partire da un tempo remoto per poi tornare all’attualità delle vicende che ci riguardano.
Nel corpo della donna sono da sempre state collocate molte specificità di genere, valori, attitudini e consuetudini socio-antropologiche: la donna è vista, ad esempio, come colei che s’identifica nel suo corpo, sia rispetto all’immagine estetica seduttiva, sia rispetto alla funzione materna e all’insita potenzialità di generare.
Non solo, il corpo delle donne è stato oggetto di dominio e di appropriazione, come si trattasse di un bene prezioso e valorialmente connotato: “non a caso durante le guerre il popolo invasore marca ancora oggi la sua supremazia e la sua potenza stuprando le donne del popolo conquistato. Atto rituale dovuto non già per un supposto piacere virile, ma come inequivocabile segno sul corpo femminile del cambio di proprietà da parte di un codice sociale dominante” (D’Elia, Longhi).
La storia conferma che il corpo delle donne ha avuto una genesi di dominio culturale e che i grandi cambiamenti in questo senso sono stati segnati, nell’ultimo secolo, da alcune grandi novità di stampo sociale e culturale; alcuni di questi passaggi sono ben riassunti da tre date italiane significative: una ad esempio è il 1959, data in cui viene introdotta la pillola anticoncezionale, che trasforma la posizione della donna in una possibilità di decisionalità autonoma e indipendente sul proprio corpo, svincolandosi dall’obbligo di procreazione. Anche la legge sul divorzio nel 1970 comporta un giro di boa epocale nelle questioni di subalternità economica e psicologica della donna nella coppia; la legge sull’aborto del 1979 sancisce il diritto della donna a svincolarsi dal ruolo di madre, socialmente e culturalmente connotato come obbligatorio prima di allora.
Queste novità innescavano una profonda rivoluzione sui temi del controllo del corpo della donna e dell’identificazione automatica del genere femminile con certe caratteristiche e funzioni fisiologiche e culturali relative al suo corpo.
IL corpo della donna oggi
“Il corpo femminile è diventato uno tra gli status-symbol, tra la gadgettistica disponibile sul mercato della felicità e contagiosamente sospinta e rinforzata dai media” (D’Elia, Longhi).
La parola Sexy, che domina la questione sollevata della Zanardo, non significa semplicemente che sei eccitante, ma significa che vali, che sei riconoscibile, popolare e socialmente apprezzabile.
Sexy vuol dire anche che “ti prendi quello che vuoi”, che fai del tuo corpo quello che vuoi proprio perché è tuo. In questo discorso s’inserisce la modernissima illusione femminile di aver una volta per tutte capovolto i valori di subalternità, dipendenza e disparità; quindi spogliarsi, esibirsi e spettacolarizzare la propria seduttività assume il senso di esercitare un diritto, un controllo consapevole su di sé per fare soldi e guadagnarsi la propria autonomia. Il potere della donna sta nella gestione libera del suo corpo per solidificare la sua posizione e il potere economico all’interno di un sistema-mercato mediatico, dove il corpo è chiaramente merce e la donna si autoproclama, illusoriamente, manager, padrona e imprenditrice di se stessa.
Il problema è che questa libertà di giocare con i modelli, con gli stereotipi, con le esagerazioni sull’immagine dei corpi femminili, è un lusso che forse difficilmente ci si può permettere senza rischiare di entrare in confusione. Infatti le rivoluzioni culturali e sociali di cui si è parlato sopra hanno finora prodotto grandi cambiamenti, che però sono ancora pienamente in corso d’opera. Ciò è riscontrabile in moltissimi campi della situazione sociale italiana rispetto a modelli culturali basati sul genere di appartenenza.
I dati dell’ISTAT relativamente all’asimmetria di genere riportano, ad esempio, che la ri-organizzazione e l’interscambiabilità dei ruoli di genere nelle attività domestiche sono ancora da ridefinire equamente: le attività di pulizia e riordino della casa, e quelle relative alla preparazione dei pasti, risultano di competenza quasi esclusivamente femminile (il 90% delle ore dedicate a queste attività è svolto dalle donne). La partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia è la più bassa tra i 25 Stati membri dell’Unione Europea. Il genere femminile ha meno possibilità di far carriera, ha accesso a ruoli lavorativi subalterni, retribuzioni basse e profili professionali non elevati.
Sembrerebbe quindi che con l’ironia, come sottolineala Zanardo, e con l’utilizzo mediatico massiccio e unidirezionale di certi modelli femminili, si rischi di scivolare in territori seri, provocando vere e proprie lacerazioni nel tessuto culturale identitario della donna.
Tornando al valore attribuito all’essere sexy, possiamo immaginare che nel market della connotazione culturale di ciò che è disponibile come femminile e vincente qualsiasi donna possa (liberamente) “dotarsi” di questi canoni ed integrarli nella costruzione della propria autostima e del valore auto-percepito ed etero-percepito. L’immagine riesce a confermare, mediante il suo potere voyeuristico, una potenza comunicativa che ha una vestibilità piacevole e facilmente consumabile, quella dello spettacolo televisivo.
La costruzione di un’identità di massa
Un neurobiologo, Lamberto Maffei, Presidente dell’Accademia dei Lincei,denuncia, in un recente lavoro scientifico, l’impatto che la comunicazione di massa può generare dando forma ad un’identità di massa. “L’imponente, improvviso aumento delle comunicazioni di massa dei giorni nostri, prima tra tutti la televisione, tende, a mio avviso, ad aumentare pericolosamente il cervello collettivo: mangiamo la stessa pappa sensoriale e culturale e sviluppiamo quindi strutture cerebrali simili.
L’aumento della memoria collettiva implica che gran parte delle conoscenze diventano comuni. Conoscenze comuni danno luogo statisticamente a programmi di vita comuni, desideri e orizzonti di vita collettivi.
Un’omologazione del pensiero, nel senso di idee, conoscenze ed aspirazioni comuni, distrugge la dialettica del pensiero stesso, cioè la lotta tra le idee, il prevalere dell’una sull’altra. In una parola diminuisce il livello dell’attività corticale e cioè quello della critica, del continuo lavoro che il cervello fa per comparare, selezionare, respingere, accettare” (Il cervello collettivo, Lamberto Maffei).
L’individualità e l’autenticità
E’ possibile chiedersi anche che impatto abbiano tutti questi aspetti sul corpo della donna come costruzione mentale di un’identità sociale e culturale.
Se essere autentici è un diritto fondamentale, che implica il riconoscimento dei propri bisogni più profondi, come si colloca questo bisogno nel modello imperante? Come questo diritto viene a patti con il canone vincente di non dimostrare la reale età della donna, la sua originalità, come testimonianze della propria storia e soggettualità?
Il corpo svolge anche importantissime funzioni legate a dimensioni psicologiche fondamentali e regolatrici della relazione con l’altro; il corpo è infatti un confine, ma è anche strumento di contatto tra il mondo interno e il mondo esterno delle relazioni ed area di mezzo che organizza con l’altro l’originalità dell’incontro; purché a parlare siano corpi densi, pieni di una soggettualità, di una storicità, di una narratività aperta e in contatto intimo con le proprie esigenze, bisogni e desideri.
Quindi, se si nasce in un sistema organizzato in codici culturali che non riconoscono legittimità e collocazione a dimensioni come la vulnerabilità e l’imperfezione, come possono soggettivamente e socialmente essere accettate e vissute queste caratteristiche umane?
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